Rodolfo Bracci, ci ha fatto pervenire un breve testo nel quale il compianto Mario Comporti, recentemente scomparso, torna con la memoria agli anni della sua frequenza liceale. Lo pubblichiamo con piacere per i più giovani e per i meno giovani, perché ognuno, nella testimonianza di un liceale del dopoguerra, possa scoprire o ritrovare, rispettivamente, il senso della nostra Scuola, ed anche della vita, quale si percepiva in quegli anni.
“Nel 1941 i miei genitori si aspettavano che il figlio, uscito dalla scuola elementare, potesse iscriversi al primo anno di ginnasio. Proprio allora però era partita la riforma Bottai: tre anni di scuola media unica prima dell’accesso ai cinque anni di liceo classico e scientifico oppure ai quattro di Istituto Tecnico. Avrei iniziato gli studi classici nel 1944. Nell’ottobre di quell’anno Siena era stata liberata da appena tre mesi. Il desiderio di annullare le leggi fasciste era fortissimo, ma cambiare la riforma Bottai richiedeva tempo; ripristinare solo il nome di quarta ginnasio era semplice e così fu.
Mi aspettavo di entrare nel famoso Enea Silvio Piccolomini, ma i locali erano stati requisiti dagli alleati che ne avevano fatto un ospedale. Un odore acre si estendeva oltre le colonne di Sant’Agostino. Le lezioni erano tenute nella scuola di San Bernardino in orari stabiliti alla meglio, nei quali però regnava scrupolo, ordine e soprattutto severità degli insegnanti. Era una classe di soli maschi ed il mio professore di materie letterarie, il sacerdote professor Gozzi, sembrava più devoto all’insegnamento che alla chiesa di Santa Maria a Tressa della quale peraltro aveva una certa responsabilità. Aveva scritto una poesia intitolata Dux in onore di Mussolini e non se ne giustificava più di tanto. Diceva: “Ci avevo creduto, come tanti”. Aveva una viva antipatia per Togliatti e per il partito comunista, ma ne parlava di rado. Invitava altrettanto di rado alla fede cristiana, ma con parole dure: “O la fede o la tentazione al suicidio” oppure: “Gli uomini possono trovare un equilibrio anche senza la fede, ma le donne no!” Segnava irrimediabilmente in blu anche errori non gravissimi nelle traduzioni dal greco all’italiano, dal latino all’italiano e dall’italiano al latino. Teneva molto alla corretta scrittura. Ci leggeva in classe “I Promessi Sposi ” e questa lettura era seguita con grande nostra soddisfazione perché al piacere di una buona esposizione si associava il sollievo di non essere interrogati. La sua era una severità che ci preparava a quella ben più aspra che avremmo trovato al Liceo negli insegnanti Nuti, Bettalli, Cuscani ed altri. Era un rigore che accettavamo; ci sembrava del tutto normale ed era, del resto, la linea di pensiero ufficiale a quel tempo. Si rimproverava al fascismo un grave decadimento della scuola e si auspicava un ritorno ad un’antica serietà e severità. Un articolo dello scrittore Manlio Cancogni su “Il Nuovo Corriere di Firenze” – articolo che mio padre mi mostrò con aria beffarda – descriveva la scuola come doveva essere: estremo rigore, nessuna indulgenza per quelli più indietro, severità inflessibile. I ragazzi, secondo l’autore, dovevano avere un tale timore per la scuola da indurli ad evitare di passare davanti all’edificio nelle ore libere. Noi ragazzi e tanto meno le nostre compagne non mettevamo in dubbio la fondatezza del rigore. Chi non riusciva bene dava la colpa a se stesso e cercava di nascondere gli insuccessi come poteva.
Al liceo classico ci sentivamo privilegiati e sentivamo il dovere di essere superiori a quelli dell’Istituto Tecnico. La nostra era una generazione particolare che si distingueva nettamente da quella che aveva frequentato il liceo sotto il fascismo e da quella successiva che non aveva assistito al dramma della guerra e non aveva toccato con mano i segni della sconfitta italiana. Né gli studenti che avevano frequentato il liceo sotto il fascismo, né quelli del dopoguerra avevano vissuto come noi dentro le aule il passaggio brusco dalla esaltazione nazionalista alla faticosa ricostruzione democratica. Eravamo in un età particolarmente attenta agli eventi ed alla nostra sensibilità di adolescenti non sfuggiva il potere degli alleati che, non contenti dell’enorme massa di automezzi a loro disposizione, requisivano anche le poche macchine italiane applicando sul retro un quadratino bianco e verde con su scritto ACC (Allied Commission of Control). Non rimanevamo indifferenti al tratto gentile dei soldati e degli ufficiali inglesi e ci ricordavamo dei versi di Virgilio: “Parcere subiectis, debellare superbos”. Non parlavamo spesso di politica e se ne parlavamo era soprattutto per auspicare un mondo migliore, senza guerre.
Qualcuno di noi nel ’48 girava con lo spillo di Garibaldi, ma senza troppo entusiasmo. L’impegno a superare le difficoltà scolastiche assorbiva le nostre giornate e le difficoltà incontrate nel tradurre i testi forse ci distraevano dall’apprezzare il valore degli scritti che esaminavamo. A parte alcune poesie di Orazio che imparavo a memoria senza che nessuno me lo obbligasse, non ricordo altri particolari entusiasmi. Il vivo interesse per i classici venne molti anni più tardi, forse antico retaggio degli anni di liceo. La severità ed il rigore morale dei professori del liceo credo siano stati il vero e più valido insegnamento che al quel tempo si sia ricevuto. Un insegnamento che ci preparava alle difficoltà della vita ed a trovare l’energia per superarle contando solo su noi stessi. So che sto per meritarmi il rimprovero della retorica, ma non posso non ricordare che il desiderio di noi ragazzi faceva parte di uno spirito molto diffuso: la voglia di raggiungere obbiettivi reali, di risollevarsi, di costruire, di riprendere quelle posizioni di prestigio nazionale che ci eravamo illusi di avere e che vedevamo chiaramente perdute. Vedevamo ferite le nostre belle città, dove era fiorita quella civiltà che studiavamo sui libri.
Ma a diciassette anni non si può rinunciare al divertimento che a quel tempo in alcuni di noi si identificava con la caccia. Ricordo una giornata di ottobre con cielo grigio e leggero vento di levante, quello che nel gergo dei cacciatori va sotto il nome di “levante torbo”, propizio al passo degli uccelli migratori. Con il mio compagno di banco Franco Nobile ci scambiavamo frasi tristi: “Stasera dobbiamo preparare “Le Coefore” per l’ interrogazione di domani; dovremo lavorare tutto il pomeriggio – e non basterà; dovremo andare a letto tardi perché domani anche Cuscani interroga”. Uscito da scuola, dopo un rapido pasto, presi fucile e cartucce, mi avviai in bicicletta verso il corso della Sorra, dove sotto il castello di Grotti, al limite tra il campo ed il bosco, sapevo esservi un famoso punto di aspetto alla beccaccia. Arrivato all’imbrunire nel punto stabilito, mi nascosi dietro un cespuglio. Vidi in lontananza un ombra che si avvicinava. Era Franco Nobile che aveva avuto la stessa idea e la stessa preoccupazione che l’amico disturbasse l’impresa. Fortunatamente passarono due beccacce e ne prendemmo una per uno”.